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Vedere cose, uscirne scemi: Bird Box

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“Un film di Susanne Bier con Sandra Bullock“.

Rileggete, dai. Chiedetevi cos’è successo alla realtà, se siete ancora sui 400calci o siete stati dirottati su welovesundance.hip e non ve ne siete accorti.

Aggiungo un dettaglio: “un horror post-apocalittico di Susanne Bier con Sandra Bullock”.

Non me lo sto inventando, è la realtà. Bird Box è il romanzo d’esordio di Josh Malerman, un tizio; è stato scritto nel 2014, ma i diritti per la sua trasposizione cinematografica vengono acquisiti da Universal prima ancora che Malerman finisca di scriverlo. Perché allora ci ha messo cinque anni a diventare una cosa? C’è di mezzo della politica e un produttore che molla Universal per andare a Netflix, portandosi nella valigetta anche i suddetti diritti per Bird Box, che viene infine affidato a Susanne Bier (ai tempi di Universal avrebbe dovuto farlo Andy Muschietti) e al quale vengono attaccati i nomi di Sandra Bullock e John Malkovich.

Mi preme a questo punto ricordare ai meno attenti che Susanne Bier è la regista premio Oscar per il miglior film straniero per In un mondo migliore, storia di famiglie che si odiano ma forse no e di gente morta di cancro e di bullismi vari – seppur costellata qui e là di esplosioni di varie dimensioni –, e che il suo ultimo film per il cinema è Second Chance, storia di famiglie e di tragedie familiari, di tossicodipendenza e suicidi.

Quindi, ricapitolando: Netflix e Sandra Bullock producono un horror post-apocalittico con la stessa Sandra Bullock, diretto dalla regista danese di drammi e tragedie assortite Susanne Bier.

Se vi dico “ne esce fuori un dramma intenso pieno di tragedia che quando deve portare avanti il lato più di genere dell’equazione si rivela timido e con poche idee” voi:

• vi stupite

• vi stupite tantissimo

• non vi stupite per nulla

La risposta esatta è ovviamente “sì”, anche all’altra domanda, e cioè “sarà forse dunque questo un classico caso di regista non horror a cui l’horror non piace particolarmente che viene messa a dirigere un film che potrebbe funzionare se la sua componente horror fosse trattata in modo interessante o quantomeno competente?”.

Sì, ovviamente, sempre sì, cioè, va sempre a finire così in questi casi, perché continuiamo a pigliarci per il culo e ripeterci che questa volta sarà diverso? SIGLA!

Ora parliamo di flashback, e del loro utilizzo forzato per allungare e diluire una storia che si potrebbe altrimenti raccontare nel giro di un’intensa mezz’ora. Ne abbiamo già discusso ai tempi di Annientamento e, più in piccolo, di Hostile, due classici casi di film appartenenti al genere “brodo allungato”, che non hanno abbastanza cose interessanti da dire andando avanti e quindi si appoggiano su quello che è venuto prima per riempire i silenzi imbarazzati. Sono quei film che incontri in ascensore e ti dicono “bella giornata, eh?”, poi salta la luce e rimanete bloccati nella cabina per un’ora e loro cominciano a farti vedere le foto dei bambini e dei compleanni dei bambini pur di far passare il tempo in qualche modo.

I bambini (non i loro compleanni) sono ovviamente centrali in Bird Box, nel quale come in Gravity Sandra Bullock interpreta una madre che ha problemi a confrontarsi con la sua maternità. Là era per sottrazione (la figlioletta morta), qui per addizione: Sandrona è Malorie, scritto così, un’artista un po’ misantropa e dura come un muro che si scopre incinta di un uomo che l’ha mollata senza manco un addio, e approccia quindi questa faccenda dell’avere un figlio con comprensibile prudenza e circospezione.

Tutto questo smette di avere significato nel momento in cui Succede La Cosa e il mondo intero impazzisce.

Ancora 30 sterline.

Riflettendo la struttura definibile con un termine tecnico “avanti e indrè” del romanzo da cui è tratto, Bird Box segue le vicende di Malorie dal momento in cui Succede La Cosa al momento in cui lei e i suoi due figli si imbarcano su un guscio di noce e salpano lungo un fiume in cerca di un possibile rifugio sicuro il capo del quale sono riusciti a contattare via radio. Immaginatevi The Road (curiosamente o forse no, un altro ottimo film quasi rovinato dall’uso di flashback) ma su un fiume, e in cui il tragitto dal punto A al punto B è raccontato con la glacialità di tempi di una puntata di Holly e Benji, perché un buon 70% del film è dedicato a guardarsi alle spalle e spiegare, con squarci di vita vissuta, come Sandra e i suoi due pupi siano finiti a pagaiare con gli occhi bendati in uno scenario da fine del mondo.

Gli squarci, in realtà, sono il film, che è di fatto una lunghissima risposta di due ore alla domanda “come siamo arrivati fin qui?”. In alternativa è un’intera stagione di Lost compressa in un film, una monografia sul personaggio perduto “Malorie” che vorrebbe disperatamente respirare spalmata sulle sue dieci ore e che invece deve comprimere tutti i suoi spunti in quella che di fatto assomiglia a una collezione cronologica di “previously on…” di una serie post-apocalittica di Netflix che non è mai esistita.

Questo è carinissimo e orrendo. 44 sterline.

Bird Box riesce così nell’impresa di essere un film sintetico ai limiti della claustrofobia e insieme troppo prolisso per riuscire a tenere sempre alta l’attenzione. Paradossalmente, lo salva almeno in parte la pervicacia con cui persegue la strada del flashback a tutti i costi: Bird Box è prima di tutto un film di attori e personaggi, che si svolge in gran parte tra le mura di una casa assediata, nella quale Sandra e compagnia si sono chiusi dopo che è Successa La Cosa e dalla quale è possibile uscire solo mettendosi una benda sugli occhi, perché La Cosa è che fuori ci sono i mostri che se li guardi impazzisci e ti suicidi.

No, davvero, l’idea di fondo di Bird Box è questa: ci sono i mostri e nessuno li può vedere perché se li guardi impazzisci, tipo il finale di The Blair Witch Project su scala mondiale. E quindi dopo la prima ondata di suicidi di massa è nato un nuovo modo di stare al mondo, fatto di bende sugli occhi, fili di Arianna tirati per non perdersi quando si esce di casa… ah sì, perché per qualche motivo i mostri invisibili non possono entrare in casa, il che li fa ricadere senza alcun dubbio nel territorio del paranormale puro. Sono demoni, sono fantasmi, sono cthulhi alieni? Bird Box è sommamente disinteressato a dare una qualche parvenza di tridimensionalità alla sua mitologia, preferendo stabilire una serie di vaghe “regole” che cambiano più o meno sottilmente da scena a scena per assecondare lo snodo drammatico migliore e puntando tutto sulle dinamiche relazionali tra coloro che si sono rifugiati nella suddetta casa.

No scusate questo è l’altro.

Fortunatamente Susanne Bier è capace di dirigere la gente e tra questa gente ci sono tra gli altri un meraviglioso John Malkovich in versione misantropa stronza, un’ottima e sottosfruttata Sarah Paulson e un Tom Hollander che sembra uscito da un weekend di bevute nei migliori pub di Tomhollanderville nel Tomhollandershire (c’è anche, per troppo poco tempo purtroppo, Rosa Salazar, il cui scopo nel film è dimostrare che quella di Alita non è CGI ma la natura). Ne viene fuori un mezzo circo ragionevolmente divertente per quanto un po’ fine a se stesso (Malorie è l’unico personaggio con una parvenza di arco narrativo, gli altri finiscono tutti dove hanno cominciato), che alla fine del primo atto è già diventato senza ombra di dubbio l’attrazione principale. A dirla tutta, il mezzo circo è molto più divertente di quando il film torna al presente e ci fa vedere Malorie e i suoi due bambini – di nome Girl e Boy – che vogano in mezzo al fiume.

Perché per quanto Sandra Bullock ce la metta tutta per dare peso drammatico alle sequenze più horror, per quanto quest’idea dei mostri che ti fanno impazzire se li guardi possa essere declinata in modi affascinanti e visivamente convincenti, per quanto ci sia una ragionevole dose di violenza e di gente che muore male, il problema di fondo di Bird Box è che Susanne Bier con l’horror e la tensione non c’entra nulla. E dunque tutte le volte che i mostri entrano in azione sollevando le foglie e agitando le fronde degli alberi e facendo versi, o quando un gruppo di intrepidi abbandona la casa per andare a saccheggiare il vicino supermercato sperando di non attirare l’attenzione delle forze del male, o nei rari e un po’ casuali momenti in cui entrano in gioco “i pazzi del manicomio criminale che possono guardare i mostri senza impazzire” e la violenza diventa finalmente reale, è in questi momenti, dicevo, che Bird Box va a sbattere contro un muro e noi con lui, pesti e sanguinanti, a pregare per un nuovo flashback che ci salvi da tanta incompetenza e disinteresse per il genere che stai utilizzando come veicolo per la tua storia di drammi familiari e tragedie domestiche, capito SUSANNE BIER?, parlo con te.

row row row your boat gently down the stream

È un peccato che un materiale così (ottimamente adattato dal romanzo da Eric Heisserer, lo stesso di Arrival) venga gettato alle ortiche in favore del dramma da tinello, e che una storia che avrebbe il potenziale per essere una vera epica kinghiana da fine di mondo venga intrappolata tra quattro mura e costretta a diventare Carnage 2 – After the Apocalypse. D’altra parte ogni volta che Bird Box allarga le ali e prova a diventare un film e non solo una collezione di personaggi si scontra con le pareti di una gabbia fatta della sua stessa incompetenza, e allora meglio tenerlo intrappolato in una scatola come Mondo Marcio e godersi la pelata di John Malkovich, ignorando che là fuori c’è la fine del mondo.

LALALA NON VEDO UN CAZZO

In chiusura, una menzione speciale a) per Trent Reznor e Atticus Ross, che hanno pescato a caso una manciata di suonini stronzi dal loro cassetto dei suonini stronzi, hanno assemblato il tutto e l’hanno chiamata “colonna sonora”, e b) per il DOP e Jimmy Bobo onorario Salvatore Totino (che se ci pensate è come chiamarsi “Zinedine Zidane”), uno con un CV lungo così che sul set Bird Box ha perso una scommessa e ha dunque fatto del suo meglio per creare le scene in notturna illuminate peggio della storia.

Magari sono dettagli, a me pare soprattutto indicazione di una preoccupante sciatteria di fondo nell’approccio a progetti come questo. A cosa servono i nomi grossi se lavorano a culo?

DVD quote:

«I’m the bird in the box, buried in my shit»
(Staley Kubrick, the400chains.com)

IMDb | Trailer

L'articolo Vedere cose, uscirne scemi: Bird Box proviene da i400Calci.


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